Era tornata l’estate e, un caldo giorno di giugno, ripercorrevo con la mente l’anno appena trascorso come podestà di Cornuda, nel marchesato di Treviso, e anche, con un certo piacere, la nuova investitura che aveva voluto darmi l’assemblea del Vicinato e che era stata da poco approvata dai reggitori di Treviso, perché continuassi la mia attività per un altro anno.
Mi ero affezionato al paese, ai suoi abitanti, laboriosi e tranquilli. Una pecora nera che delinque si trova in ogni luogo e non doveva meravigliarmi. E quei cittadini avevano apprezzato il mio operato, l’essere stato alieno dal ricorso alla tortura durante le indagini, che evidentemente non era frequente, come pure permettere ai condannati alla gogna di tornare a casa di notte.
Io non avevo partecipato all’assemblea, che tra l’altro aveva eletto il nuovo meriga nella persona di Cencio di Toni, il sarto. Egli era venuto da me dopo la conclusione e mi aveva detto che i cittadini volevano di nuovo me come Podestà e che mi pregavano di accettare. Ed ero stato molto contento di farlo. Quante cose successe nei mesi precedenti e soprattutto la vicenda che avevo risolto, non senza molte difficoltà, con l’aiuto dei miei fratelli e del fedele Viano e soprattutto tramite le confidenze di alcune donne.
Ora mio fratello Rinieri, sposato a Filomena, figlia del medico Blumi, si era stabilito a Selvapudia in un’abitazione confinante col palazzetto del suocero e aveva voluto rimanere da me come aiutante e cancelliere. Io avevo chiesto alla comunità un aumento del mio compenso per poter pagargli un conveniente salario e i cittadini avevano liberalmente accettato. Così egli quasi ogni giorno si muoveva dal borgo e veniva a Cornuda. Non sempre, però, perché io, dopo l’estate precedente, non avevo avuto da occuparmi che di faccende comuni, per le quali potevo bastare da solo: le modeste liti che avvengono sempre tra i coltivatori che hanno campi vicini o tra gli artigiani che chiedono piccoli prestiti agli altri e poi magari non li possono restituire a tempo debito. Per deferenza le cause venivano portate a me, ma quasi sempre io le rimandavo al meriga e ai consiglieri perché tentassero un accordo più o meno amichevole.
Passando alle cose più piacevoli, ormai Gemma , mia moglie, era incinta del nostro secondo figlio e il suo tempo era già un bel pezzo avanti. Anche dopo il matrimonio con l’erborista, Nena, la figlia del sarto, era rimasta ad accudirci e il salario che le davamo serviva ad integrare i proventi delle erbe; anche se ora i cittadini, che erano più ben disposti verso l’erborista Angelo e avevano riconosciuto i loro ingiusti sospetti, tendevano ad essere più generosi con i pagamenti per le cure, che avvenivano sempre su base volontaria . Nena, dopo aver dato alla luce il primo figlio già era anch’essa incinta del secondo. Prima di chiederla in sposa, Angelo aveva confidato al parroco che non sapeva come confrontarsi con una donna, non ne aveva mai conosciute; essendo stato educato in convento anzi un po’ le temeva e aveva paura di non essere in grado di soddisfare il debito coniugale. Ma, vivendoci assieme, aveva ben scoperto come fare…
Per non metterla in difficoltà quando veniva da noi volevamo che portasse anche suo figlio, così poteva allattarlo e poi era insostituibile col nostro che a volte era bizzoso e lo faceva calmare semplicemente parlandogli con la sua voce dolce. Il medico Blumi, vedendo come lo teneva in braccio, e gli faceva le boccucce, aveva già l’anno passato scoperto le sue doti di madre.
Mio fratello Gerardo, invece, aveva accettato di vivere a Treviso ed era stato nominato nei consigli del Comune, dopo essersi sposato con una discendente dell’antica e nobile famiglia dei Collalto. Eravamo andati al suo matrimonio, dopo Natale, alla presenza di Ecelino da Romano . Gemma si era un poco rifatta dalla modestia della nostra vita frequentando i ricevimenti e i banchetti di quella famiglia, che erano assai sontuosi e che certo dovevano ricordarle la sua vita a Fiorenza, prima del matrimonio. A Pasqua erano venuti loro a trovarci. La moglie era una dama molto graziosa, sui diciassette anni, ed era assai innamorata del marito, che pure le era stato scelto dai parenti; però era stata affascinata dalla sua grande gentilezza e, come una volta disse a Gemma, non avrebbe mai sperato di essere unita ad un uomo così gioviale e premuroso.
A Cornuda l’arciprete aveva ottenuto un aiuto, un giovane diacono che sperava un giorno di divenire prete, Domenico da Godego. Aveva circa la mia età, sui trent’anni, era alto e magro, un po’ come messer Alberto, l’arciprete, con un viso simpatico e un tratto affabile; però quando parlava di peccati il suo viso si scuriva e diventava intransigente. Mi veniva sempre da pensare, quando lo ascoltavo, che, in tutti i campi, i giovani sono sempre i più inflessibili. Col tempo certo avrebbe imparato la bonomia del pievano e l’indulgenza verso i peccatori. Indossava la sua tunica con una certa eleganza di portamento, evidentemente la sua era una buona famiglia del suo paese di origine.