La stanza era piccola, grigia e spoglia, con solo una piccola branda appoggiata alla parete, perpendicolare alla porta sprangata. Il chiarore dei lampioni filtrava da due strette finestrelle, piazzate appena sotto il soffitto e chiuse da vetri spessi, rendendo l'atmosfera spettrale. Faceva caldo.
Sara si asciugò i rivoli di sudore che le scorrevano lungo il collo e la faccia con il palmo della mano, stupita dalla quantità d'acqua che era ancora in grado di emettere il suo corpo, e si ripulì sulla tela dei calzoni militari che indossava.
A mezzogiorno questo posto diventerà un forno, si disse. Poi scosse la testa. Le previsioni del tempo erano l'ultimo dei suoi problemi, al momento. Arrancò verso la porta e premette l'unico interruttore. Una luce tremolante al neon illuminò il locale e le ferì gli occhi. Meglio la penombra, pensò, e la spense subito. Sulla stessa parete cui era addossata la branda era stata ricavata una nicchia in cui era incastonato un minuscolo bagno completo di WC e lavabo in acciaio inox.
Aveva una sete tremenda. Si trascinò fin lì e bevve con avidità dal rubinetto, infischiandosene se fosse potabile o meno. La testa le pulsava e la ferita alla gamba martellava incessante. I farmaci le avrebbero dato sollievo, ma purtroppo, quando l’avevano perquisita, le avevano lasciato solo il vestiario e tolto ogni cosa in suo possesso.
Rinfrancata, si sedette sul letto, poggiò il gomito sulla gamba buona e si prese il volto tra le mani. Che ne sarebbe stato di lei, ora?
Pochi attimi dopo la porta si aprì e apparvero un uomo e una donna in basco e mimetica.
«Sara Toni?»
Le parve una domanda retorica, comunque annuì piano, gli occhi blu sbarrati dalla tensione degli ultimi giorni e le notti insonni.
«In piedi. Ci segua.»
Si alzò con difficoltà dal letto e, zoppicando, andò loro dietro.
Fu accompagnata in un'altra stanza, senza finestre e illuminata a giorno. Un uomo con una camicia bianca, una donna corpulenta in uniforme e un altro tizio del tutto calvo, erano seduti dietro a un tavolo di legno chiaro, su cui erano poggiati dei fogli e un computer portatile.
«Si sieda» la invitò quello pelato, senza alzare la testa dal documento che stava compilando a mano. Lei obbedì e franò sull’unica sedia di fronte a loro.
«Sara Toni, dico bene?»
«Sì» confermò lei in un soffio. «Lei chi è, invece?»
Lui le dette un'occhiata di sfuggita, poi passò il foglio al collega di fianco prima di rispondere.
«Carlo Di Stefano.»
Ne sapeva quanto prima. Occhieggiò gli altri due: il tizio in camicia dette una scorsa veloce al foglio prima di timbrarlo e riporlo in una cartellina. La donna – Margherita Bozzi, lesse sul cartellino – invece pareva assente, tutta concentrata sul monitor.
«Posso sapere perché sono qui?» si azzardò a chiedere.
I tre si scambiarono delle occhiate di sbieco accompagnate da risolini soffocati, prima di tornare seri senza degnarla di risposta.
Lei strinse le labbra e si sforzò di concentrarsi su quanto la circondava. Il computer le pareva familiare, molto simile al suo, stessa marca e stesso modello. Vecchiotto, concluse.
D’improvviso Di Stefano le gettò davanti agli occhi delle foto.
«Le guardi!» le intimò, sgarbato.
Lei sobbalzò.
«Ah!» Dalla ferita partì una fitta di dolore che le trapassò tutto il corpo come una spada affilata. Tuttavia trovò la forza di avvicinarsi e cominciò a scorrerle. «Cos’è questo? Cos’è successo?»
In quella che aveva in mano, in primo piano c'era il corpo senza vita di un soldato: un'esplosione gli aveva maciullato le gambe e portato via parte di un braccio. Ne prese un'altra dove un ammasso di veicoli incendiati e corpi carbonizzati la lasciò senza fiato.
«Me lo dica lei.»
Sara lo guardò smarrita e scosse la testa.
«La smetta!»
Lei sobbalzò di nuovo e continuò ad annaspare.
«Mi vuole forse far credere di non saperne niente?»
«Sembrerebbero i resti di uno scontro a fuoco, un'azione di guerra, di più non saprei dirle» biascicò pur di dire qualcosa.
«È quel che rimane della colonna di rifornimenti, partita da Amino, nel sud dell'Etiopia, e mai arrivata a destinazione il 13 giugno» commentò serio, squadrandola con disprezzo.
Lei dette un'altra occhiata a quella carneficina e comprese a cosa si riferissero gli ammonimenti di Sergio. «Mi dispiace, ma non capisco cosa c'entri io» replicò, prima di fissarli a uno a uno.
Margherita perse la pazienza e girò lo schermo verso di lei.
«Ci spieghi il significato delle conversazioni con questo Hamed Daud.»
Sara sbiancò nel riconoscere il proprio portatile aperto sulla chat di Facebook.
«Come avete fatto? Non avete il diritto!» sbraitò e cercò di afferrarlo, ma la donna fu più lesta e lo portò fuori tiro.
«Ce l'avevamo e l’abbiamo fatto» chiarì con freddezza. «Ci spieghi il significato di queste conversazioni.»
Sara deglutì a vuoto e scorse sbigottita le trascrizioni: consegne di armi, pianificazione di attentati, appuntamenti, piani. Non erano certo questi gli scambi avuti con Hamed. Si prese la testa tra le mani e la scosse con vigore, aveva l’impressione di essere appena uscita da un incubo per entrare in un altro.
«Sono messaggi privati. Fuori dal loro contesto possono assumere un significato diverso» cercò di minimizzare.
«Cosa rappresenta questo Hamed, per lei, signora Toni?» s'intromise il tipo in camicia. Sara fissò il tavolo e prese tempo. Non sapeva chi avesse davanti né tanto meno se potesse fidarsi. Le operazioni erano ancora in corso e gli ordini ricevuti prima della partenza erano chiari.
«È solo un conoscente» mentì.
«Un conoscente con cui amava intrattenersi spesso, vista la mole e il tono dei messaggi» ribatté lui con una smorfia cattiva.
«Chi siete voi? Perché mi trovo qui? Dov'è Sergio?» contrattaccò arrabbiata. Accennò ad alzarsi, ma Di Stefano la precedette.
«Si rimetta subito seduta!» gridò sovrastandola di una trentina di centimetri buoni. Lei si afflosciò contro lo schienale. «Sa cosa credo?» proseguì più calmo. «Che quando fu rapita dai terroristi un anno fa, lei, un’oscura, anonima, inutile, infermiera alle prime armi, pur di salvare la sua patetica vita, abbia venduto l’unica cosa di valore che aveva.»
«E che cosa avrei avuto di così prezioso?»
«L’uomo che aveva umiliato il generale Ikpeba e permesso lo sterminio del suo commando armato. L’uomo su cui Ikpeba aveva messo una taglia purché gli fosse portato vivo. L’uomo che odiava. Il pilota dell’Aeronautica, Sergio Morelli.»
«Cosa?» biascicò, allibita.
«Sappiamo che Hamed Daud è stato il suo carceriere, durante la prigionia.» Lei abbassò la testa, ma non disse niente. «E sappiamo anche che è un uomo del generale Ikpeba. Ha giocato sui sentimenti che il maggiore provava per lei e, imbeccata dal suo aguzzino, è riuscita a manipolarlo fino a condurlo in trappola, servendolo su un piatto d’argento. È vero o no?» Sara era senza parole, il cervello che le ronzava, incapace di elaborare altro.
«Voi siete tutti matti» sbottò infine. Aveva ripreso a sudare copiosamente; la debolezza stava per vincerla. «Sono in arresto?» provò di nuovo a chiedere, anche se, dopo il mutismo degli agenti che l’avevano prelevata, ormai dubitava di ottenere una risposta. Non aveva dimestichezza con le operazioni di polizia, ma da come si era svolta, la cosa le sembrava poco regolare.
«Non ufficialmente.» Fu costretto ad ammettere Di Stefano. «Ma visti gli indizi, non possiamo lasciarla andare.» Il dossier grazie al quale erano riusciti a risalire a lei, era anonimo ma così particolareggiato che non avevano potuto ignorarlo.
Una cosa era certa: Hamed Daud era un terrorista della peggior specie, con cui lei aveva complottato e intrattenuto regolari rapporti. La corrispondenza tra le chat e alcuni attentati non poteva essere una coincidenza. Dovevano farla crollare e indurla a confessare per sgominare tutta la rete.
«Dove mi trovo? Che posto è questo? Ho bisogno di un dottore.» Stava davvero male, doveva andare via.
«Si calmi. Se collaborerà, tutto finirà presto e nel migliore dei modi.»
«Collaborare? Non so che dirvi! Quelle sono tutte menzogne!» affermò indicando il portatile. Si stropicciò la faccia e cercò di detergersi il sudore, la vista sempre più appannata.
«Ci aiuti a sgominare quest'accozzaglia di esaltati, prima che qualcun altro si faccia male» l’esortò la donna con uno sguardo accorato che purtroppo finì nel vuoto.
Sara non ce la faceva più, la testa ormai ciondolava di lato con i lunghi ricci scuri che le coprivano in parte il viso. «È già tutto finito...» mormorò con un filo di voce.
«Cos’ha detto? Ripeta!» Carlo si alzò, l’agguantò sul davanti della maglietta militare e la scosse come una marionetta. «Ripeta, maledizione!»
«Non avete capito niente» sussurrò con un lieve sorriso. «Non avete più niente da fare.» Poi cadde nell’oblio, dove il ricordo di un cielo limpido e assolato la stava aspettando.