Com’è possibile che, di tutte le ore passate sui libri, alla fine sia rimasto così poco?
Questa domanda ha cominciato a tormentarmi all’università, durante un corso di Sociologia dove si mettevano in luce alcuni aspetti problematici del sistema educativo italiano. Fino a quel momento avevo ritenuto normale che si perdesse gran parte delle conoscenze acquisite sui banchi di scuola. Il fatto che la maggior parte dei miei conoscenti condividesse questa amnesia non mi aveva mai portato a interrogarmi sul perché, a venticinque anni, non ricordassi quasi nulla delle materie studiate alle medie e alle superiori. In fondo si tende a ricordare solo ciò che si mette in pratica attraverso l’uso. Lo stesso cervello, per imparare cose nuove, è costretto a rafforzare alcune connessioni e a tagliarne altre.
In quell’aula di università, però, avevo appreso per la prima volta il concetto di “analfabetismo di ritorno” e la sua natura paradossale: nello scolarizzatissimo mondo occidentale le abilità di lettura e calcolo stanno calando. In quel momento mi sono interrogato sul senso che la scuola ha oggi per gli studenti e su quello che ha avuto per me.
La mia risposta è stata sconfortante. Obbediente e ligio al dovere per natura, avevo il terrore di fare brutta figura. Soffrivo inoltre di una disabilità fisica che aveva creato in me un disperato bisogno di approvazione e riconoscimento. Avere buoni voti significava evitare sermoni e ramanzine. Significava compiacere l’insegnante che, con i suoi complimenti, mi avrebbe dato una temporanea iniezione di autostima. Da lì mi sono reso conto di essere rimasto invischiato in quel meccanismo per venticinque anni. Ero diventato un mero “esperto nell’imparare” come già scriveva John Dewey negli anni Venti. Il voto rappresentava la mia motivazione principale perché dal voto facevo dipendere la mia identità. Storpiando Cartesio: “Prendo (bei) voti dunque sono”. Tutto questo mi aveva reso un’anfora perfetta per il travaso di nozioni. O meglio, un colabrodo.
Le cose sono cominciate a cambiare con la scoperta della filosofia. Attraverso gli studi di etica, filosofia politica e teoretica, sociologia, neuroscienze e psicologia sociale sono riuscito a trovare una connessione coerente in ciò che studiavo. Mosso dall’ingenuo desiderio di riformare il mondo, avevo iniziato a leggere testi di mia iniziativa, a dialogare coi docenti, sino a pubblicare qualche articolo di ricerca. Speravo di utilizzare la neuropsicologia per promuovere un nuovo tipo di educazione morale ed ecologica, così che genitori e docenti potessero crescere cittadini meno egoisti, meno manipolabili e più felici. La motivazione non era più data dalla ricerca di approvazione, quanto da un crescente impegno sociale.
Il passo verso il mondo dell’insegnamento è stato inevitabile. Lasciato il settore della ricerca accademica, mi sono concentrato sugli alunni più giovani, perché in loro ho ritrovato il bisogno di una motivazione diversa dal voto. Prima come collaboratore alle scuole medie, poi come supplente alle superiori, ho avuto modo di mettere finalmente in pratica la teoria.
Questo libro nasce per raccontare proprio queste esperienze, che sono quelle di un giovane aspirante docente la cui prospettiva, da un lato, manca dell’esperienza e della competenza degli insegnanti più anziani, mentre dall’altro ha il vantaggio di comprendere un po’ meglio il linguaggio e la psicologia della cosiddetta Generazione Z.
Nel primo capitolo descriverò il percorso di studi che mi ha portato a interessarmi di questioni pedagogiche e psicosociali. Nel secondo racconterò i progetti sull’educazione digitale e il pensiero critico che ho condotto presso la Scuola Media Zanetti di Solignano. Nel terzo capitolo riporterò le prime esperienze di docenza presso vari istituti superiori della provincia di Parma. Gli ultimi due capitoli saranno dedicati rispettivamente alla didattica a distanza durante l’emergenza da Covid-19 e a una piccola parentesi sulle connessioni social tra insegnanti e studenti.
Quello che racconterò sarà un percorso ricco di difficoltà ed errori, ma pure di affetto e soddisfazioni. Questo libro non ha la pretesa di insegnare qualcosa ai professionisti del mestiere, né potrà offrire facili soluzioni a problemi fortemente radicati nel nostro sistema. Il mio intento vorrebbe essere quello di puntare i riflettori su alcune dimensioni del docente e dello studente affinché se ne riconoscano i profondi cambiamenti rispetto alle generazioni precedenti.
Il voto viene spesso vissuto dagli studenti come un mero numero da collezionare, una valutazione ottenuta soltanto per accontentare un genitore troppo severo. Lo studio, da generazioni, è considerato un obbligo e non più un piacere e, una volta usciti da scuola, o peggio dall’università, ci si dimentica di ciò che si è imparato. Ma di chi è la colpa?
Giuseppe Turchi in Insegnare giovane racconta il suo punto di vista, di insegnante, ma prima di tutto di allievo, come siamo stati tutti.
Attraverso problematiche attuali e aneddoti personali dell’autore, il mondo dell’insegnamento prende vita in queste pagine, promuovendo una cultura delle relazioni e della formazione che permetta di stringere una vera alleanza educativa tra docenti e allievi.