Scrivere una poesia oggi – tranne che per i fortunati abitanti di mitologiche biblioteche e torri d’avorio – è impresa sovrumana e, probabilmente, inutile. Già definire l’atto dello ‘scrivere’ implicherebbe lunghe e tediose disquisizioni estetiche: l’etimologia del verbo stesso ricorda l’utilizzo di strumenti che incidono una superficie. Nella nostra veloce epoca multimediale, ciò non è solo antiquato, ma pateticamente nostalgico. Similmente, definire una ‘poesia’, a più di un secolo dalle ambiziose avanguardie, settanta anni dopo l’olocausto, e dopo la sperimentazione di tutti i metri, le forme e le poetiche possibili, è esercizio a dir poco ambizioso.
E scrivere un libro di poesie – aggiungere un minuscolo elemento alla innumerevole serie di parole scritte, parlate, dette, urlate e stampate in ogni possibile forma – è un affronto alla modestia. Tutte le parole che sono contenute in questo breve volume sono già state utilizzate milioni, o miliardi, di volte, in tutti i possibili contesti. Non ci sono parole in questo libro che non possano essere ritrovate su giornali, cartacei e non, ascoltate in vani talk show o notiziari, o abusate da vili profittatori e millantatori di facili paradisi.
Eppure, le parole, questi modesti strumenti, possono ancora schiudere – se ci si ferma ad ascoltarle – brevi istanti di pura felicità, o indicare strade per la comprensione della nostra faticosa realtà. Questa, in breve, è la magia della poesia.
Questa magia si produce per mezzo di una strana (miracolosa?) combinazione di elementi. La scelta di parole da parte del poeta per tentare di esprimere una scintilla che è fondamentalmente indicibile, e che per ragioni misteriose si è accesa: nel mio caso, questo è lavoro di cesellatura, più che di flusso creativo. Accanto a questo semplice atto, è necessaria e forse più importante la lettura da parte del lettore. Grazie a questo commercio binario nasce, in maniera e per ragioni incomprensibili, un attimo in cui la realtà è compresa; quell’attimo in cui le parole-simboli (σύμ-βάλλω) uniscono tutto ciò che è intorno a noi, quanto vi è di visibile o sentito. Personalmente, la gioia di scoprire la bellezza di un verso altrui è maggiore di quella che provo quando, con non poca fatica, allineo parole.
Il nostro mondo è così vasto e variegato che sarebbe inconcepibile pensare che non contenga molte cose che possano mostrarci ogni istante una bellezza di paradiso. Allo stesso modo, intorno a noi, l’abisso e gli orrori ci circondano senza tregua. Agli abissi già presenti in natura, occorre dire, la nostra insignificante specie si cura di aggiungere – non senza creatività – nuovi e sempre più grandi orrori. Già questa circostanza, a mio avviso, sarebbe ragione di dubitare profondamente delle religioni o di moderne teorie quali l’intelligent design. Ad ogni modo, ritengo che lo scopo del poeta sia di dividere con altri sia le meraviglie che gli angoli bui della nostra incerta cosmogonia. Quanto sia riuscito in tale impresa, lascio al magnanimo lettore giudicare.
Entropia
Scipione, altero e vittorioso,
che forse piange su quelle fumanti
rovine chiuse d’eterno sale
a Cartagine.
Timur, fondato l’impero
che rimpiange una mattina di sole
a Samarcanda, prima del guerriero
senza mai fine.
Generali seri, veloci corse
di tank, uomini paesi arsi
blitzkrieg verso il dominio
generali fieri per Hiroshima.
Le grandi gesta, i vittoriosi
condottieri, gl’incendi di glorie
non hanno la curva dignità
degli sconfitti, obliati dalla storia.
Arti mozzati, strade e fabbricati
rasi, brandelli di vite, cenere
e polvere, ora soltanto ombre e nomi.
No life will return,
no fire will unburn.
Energia cinetica compiuta
calore dissipato. Questo resta:
testi sfatti dell’immane processo,
onnipresente, imperturbabile
entropia.
L’istante
Percorrerai, ignaro, quell’esatto
numero di passi, in decise strade
ed incerti paesi; poi nulla più.
Pronuncerai soltanto quel fissato
numero di parole, dolci e grate
dure o ferite. Poi: silenzio.
Leggerai, ma senza saperlo,
quell’ultimo libro che ti è dato,
vedrai un giorno l’ultima pagina,
non una di meno, né una di più.
Il tuo cervello emetterà
la precisa cifra di impulsi
a muscoli, nervi e terminazioni
quindi si fermerà.
Compiuto l’esatto labirinto
di strade, parole, ed ignari incontri
che disegnano il tuo volto,
sarai morto.
A partire da quel preciso istante
per te ormai indifferente
la quota totale di informazione
vedrà una riduzione, in misura
statisticamente non rilevante.