La telefonata del dottor Attanasio arriva mentre mi preparo
per andare in ospedale. «Mi dispiace Alberto, ma il team
di emergenza ha deciso che deve restare in quarantena».
Poche parole, spicce, senza repliche. È nello stile del nostro
medico, un uomo poco loquace, che sa il fatto suo. Lui ha capito
subito che la febbre di mia moglie era causata dal virus
e ha insistito con l’ospedale perché le trovasse un posto letto
con urgenza.
Vado su internet, scorro l’elenco dei siti con la parola
chiave, trovo dichiarazioni sparse del team di emergenza. La
prima è che il virus è altamente contagioso; la seconda è che
il protocollo della quarantena è una misura precauzionale
per chi è entrato in contatto con una persona contagiata.
Quando hanno portato Anna in ospedale aveva già la febbre
alta. Questo aumenta l’agitazione.

La quarantena è il periodo di segregazione cui è
sottoposto il contagiato, il diverso, una fase probatoria
necessaria a smascherare la malattia, un luogo di
isolamento in cui la salute è sospetta, spiata da dietro un
vetro di diffidenza. Fino al momento della diagnosi, la
condanna alla solitudine forzata è preventiva, perché la
salute degli uomini è troppo precaria per rischiare, e
l’untore va isolato.
Il virus fa tanto più paura quanto più viene da lontano,
perché le vie sconosciute percorse dal diverso non
possono che essere strade pericolose, terre infette.
Così, lo spauracchio del contagio separa mariti da mogli,
genitori contagiosi da figli deludenti; i seni nutrienti delle
madri divengono ricettacolo di batteri, il latte un veleno
trasmesso con l’inganno della vita. Perfino l’amore
diventa un sospetto episodio virale, quando l’inverno lo
spoglia dei suoi fiori e ne rivela i frutti guasti.
In dodici