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Number#0/DREAM
T H E R E
Una smorfia davanti allo specchio, le dita della mano che attraversano i capelli e un laccio di pelle che scende sul petto, sotto il peso di un crocifisso cromato che si confonde tra i seni. Poi la sciarpa di lana attorcigliata alla gola e infine gli auricolari. Vado! – risuona nell’ingresso e pochi secondi dopo è già per le scale. Palpitazioni prive di un ritmo bilanciato e l’affanno che ha sostituito un respiro: il mio. Dovrebbe essere impossibile tenere quel passo, eppure io le sono dietro: devo esserci, devo! La vedo scomparire oltre il portone d’ingresso, ma con un soffio sono fuori anch’io. Cammina a testa bassa per non incontrare lo sguardo degli sconosciuti e si sforza di conservare una direzione inserendo ogni passo nel rettangolo, senza pestare le linee. Così – al ritmo di una musica che ascolta solo lei – raggiunge la fontana al centro del parco, si siede e bisbiglia a un’amica e io le sono dietro. Chiamo, ma non mi risponde, agito le mani ma lei mi guarda attraverso. Io sono invisibile. Allora mi siedo a fianco a lei e assumo la sua stessa posizione: la schiena distesa e il collo allungato e gli occhi che sfidano il sole e aspetto. Un ragazzo biondo - di poco più grande - l'accarezza e la distoglie e poi le offre la guancia. Anch'io mi scuoto e comincio a seguirli, nella fatica e nell'imbarazzo, ma quando si abbracciano allora mi rendo conto che sono legato a una corda tesa e rotolo per terra. Allora grido, ma le parole mi muoiono in corpo e li perdo all'orizzonte. È la pazienza a venirmi in soccorso. Sono scoraggiato, ma non ancora vinto: siedo per terra e mi divincolo tra la gente che mi cammina intorno, ignorandomi. Sulla mia testa c’è come un cuscinetto pieno d’aria, ma va bene così: posso ancora respirare. È trascorso un minuto o un'ora, non riesco a quantificare la vita che mi passa davanti e sento che non è importante. Quando ricomincio a camminare è già il tramonto e mi giro e mi rigiro e ciò che vedo è grande: c'è il mare e dall'altra parte c'è la spiaggia e in lontananza riesco a isolare una voce e allora mi faccio forza e riprendo il mio cammino. L'aria che respiro è quasi vuota, ma mi riesce ancora di respirare – anche se a fatica – e poi non devo fallire. Un passo dopo l'altro, con i piedi che attraversano la sabbia e il vento che mi porta il profumo del mare, così raggiungo quella voce e vinco il freddo massaggiandomi l'addome. Si respira qui e l'importante è averla ritrovata. Sotto gli occhiali da sole di sua madre ha cominciato a fissarmi, come se potesse vedermi. Le sue labbra disegnano una U capovolta, pesano una tonnellata. Si solleva, poi si accende una sigaretta – quando avrà cominciato? – adesso si è irrigidita sui gomiti: è grandissima.
- Non mi saluti nemmeno?
- Tu... Tu riesci a vedermi?
- Solo quando sei presente, che domande!
Il sole è sparito all'improvviso e sulla strada - adesso - c'è il freddo, quello stesso freddo che si deve sentire quando sei morto, dentro le ossa.
- Non devi parlare di esperienze che non conosci.
- Puoi leggere i miei pensieri?
Mi copro con un altro cappotto ma non si tratta di quantità: questo dev’essere il freddo dell’anima. Si stringe nei vestiti e un brivido di freddo compare sulla sua faccia trasformandosi in espressione. A passo svelto supera l'incrocio e prende a correre. Dietro le spalle c'è uno zaino colorato e pieno di ciondoli e scritte. Dietro questi colori, scompare.
Devo andare a scuola, mi ha detto, ma continuo a vederla su quella panchina, con i gomiti incollati sulle ginocchia e la schiena piegata e questo freddo innaturale che chiama la pioggia e la pioggia che arriva e allora mi spingo più in là - con un salto lungo diecimila metri - e cerco di proteggerla dal freddo, ma il mio ombrello è piccolo, troppo, troppo piccolo e allora lo getto sul prato. Non ho strumenti, non ho difese.
- Perché piangi?
Se resta ferma per un altro secondo giuro che morirò. Poi si solleva, si asciuga le lacrime e sul suo volto bianco resta un alone scuro. Questa maledetta pioggia rossastra che non dà tregua. Questo freddo che ti entra nel cervello. Questa città ingrata e violenta che si trasforma e diventa un'autostrada. Dal cielo cominciano a piovere numeri, penne, libri e fogli bianchi e mi rendo conto che sono rimasto solo: io e i miei numeri, io con me stesso: solo. Quest'aria è priva di ossigeno e io sono al centro del mondo e nelle mani non stringo nulla, allora risolvo di arrendermi. Sono qui, nel mezzo di un buio infinito, sospeso in un impossibile a forma di capsula. La vedo in lontananza e allora volo verso di lei, ma mentre mi avvicino mi rendo conto che i suoi capelli cominciano a ridursi di lunghezza, il colore della sua pelle ridiventa candido, come d'avorio, e il corpo - più paffuto - rimpicciolisce di colpo. Ora sta piangendo, è una bimba che cerca i propri genitori e io posso solo sfiorarla, posso osservarla: guardare-senza-toccare. E intanto piovono numeri da un cielo sottosopra e riesco ad afferrarne alcuni e li metto nelle tasche, ma quel pianto è il mio pianto, fino a quando non torna il silenzio e una luce ammanta il mio corpo di un chiarore che non rammento di aver conosciuto. Una luce che non offre calore e Roxanne mi riappare più grande di quanto dovrebbe. Al suo invito rispondo con un cenno e nel frammento di un secondo le sono di nuovo accanto. Roxanne, piccola mia…
- Non sfuggirmi.
- Mi accompagneresti al lavoro?
- Certo, piccola, certo che ti accompagno.
Stiamo volando.
I nostri corpi si toccano e questa sensazione - così lieve - è eterna, ma poi si esaurisce di colpo. Il cielo è grande, gigantesco e da quassù si riesce a vedere la città, questa ingrata città, la nostra. Superiamo i campi e ci abbassiamo sulla strada. Riusciamo a evitare le sommità dei tetti e ci infiliamo sulla strada maestra, illuminata dai lampioni e scivolosa di pioggia. Sono con lei come mai è accaduto, le sono vicino, ne sento il calore. Non è possibile essere così soli e dopo averlo pensato ecco che luci e voci prendono vita a un incrocio. Superiamo un'isola di colori in un mare buio e lei mi prende per mano e indica che dobbiamo tornare indietro, ma non ci sto, non sono ancora pronto e voglio godermi questo viaggio verso il punto d'inizio, ma lei ha invertito la rotta e devo scegliere cosa fare, e io ho poco tempo - pochissimo - e mentre risolvo, sono già lì che inseguo. È svelta, spedita e in un niente è arrivata a destinazione mentre io provo a rallentare, eppure il mio corpo continua la corsa e io sento le voci, riesco a comprendere le parole, vedo i volti dei poliziotti e un'ambulanza che apre il portello posteriore per far uscire la lettiga e lo sguardo dei medici è diverso da quello che mi aspetto. È fermo. Lei compare al centro della scena. Ha indossato i vestiti della scuola e sta infilando la sua cartella colorata. Allora non vorrei, ma mi faccio strada e mi avvicino, con discrezione. Vinco un brivido: adesso le sono davanti. Adesso le parlo.
- Cosa fai, Roxanne?
- Non piangere.
- Non sto piangendo.
- Tu ricordati di non piangere...
- Perché ti distendi per terra?
Lei avvicina l’indice al naso e io zittisco di colpo, poi atterro su quel metro quadro di asfalto e non posso evitare di notare certe strisce bianche accanto a una sagoma umana disegnata per terra. Ho un secondo brivido e l'aria si è svuotata ancora. Vorrei sparire, ma lei è lì, così vicina e così infinitamente lontana. Tra le luci blu e le luci rosse e decine di uomini in divisa che si alternano a camici bianchi senza volto, lei si toglie una scarpa e la getta lontano, poi fa altrettanto con la sciarpa e rompe le lenti degli occhiali prima di rimetterli sul naso, con l'asticella destra che pende verso il basso, si graffia il viso fino a farlo sanguinare e poi mi sorride.
- Tu non piangere.
Poi guarda il cielo per l'ultima volta prima di adagiarsi a terra per assumere una posizione scomoda e innaturale, con la faccia poggiata sull'asfalto e le gambe flesse e aperte. Poi chiude gli occhi e si ritrova, con precisione, contenuta in quel contorno bianco. Poi un uomo in divisa si solleva e sento il suo dolore e so che ha detto quello che ha detto rivolgendosi a dio: qual è il senso di tutto questo? e poi ha chinato lo sguardo. Solo adesso mi rendo conto che ho smesso di respirare e che a pochi metri da me c'è un ciclomotore a terra e sopra ci sono le ruote di un'automobile e sopra tutto questo la solita pioggia rossastra, una pioggia di sangue. Allora parto e volo: ho bisogno di respirare, ma sbatto contro una parete di vetro. Fuori c'è la vita, fuori c'è la luce, mentre io sono intrappolato in questo cubo di cristallo che argina ogni tentativo di fuga. È allora che succede. C'è una figura dall'altro lato, un essere. È immobile e so che mi sta aspettando. Fluttua sopra di me, sulla parete trasparente che sostituisce il soffitto di questa gabbia, allora muovo verso di lui. Quando raggiungo la parete riesco a rimanere sospeso e così attendo: sto volando. Da quella posizione si vede ancora la strada. Altre auto sono sopraggiunte e altre persone ne sono uscite e altre mani frugano tra i capelli come alla ricerca di un grosso bottone e io resto qui, lontano dall'epicentro, senza volontà. La figura mi dà le spalle e allora io mi chiedo a cosa serve questa attesa e quando sto per andare via, lo vedo che sbatte le dita sulla parete: ognuna produce un suono acuto, una dopo l'altra a un ritmo preciso, come le lancette di un orologio. È un altro me stesso e mentre sbatte le dita mi osserva come farebbe un padre con suo figlio. Ha il mio stesso volto, gli stessi vestiti, ma gli occhi di chi non perdona. Sono qui e sono lì: dove sono io? Osservo, ma le dita continuano a sbattere e i suoni si fanno sempre più pieni, pesanti.
- Hai capito? – mi dice, ma io tentenno. Hai capito dove ti porterà tutto questo?
Poi chiudo gli occhi e mi sento trasportato altrove.