OBIETTIVI
Obbedire: l’attività di imporre a sé stessi istruzioni impartite genericamente dall'esterno e di
eseguirle senza sindacarle, con rigore e ottemperanza. L'obbedienza è una delle prerogative più'
significative del soldato. Anche nel mondo impiegatizio questo concetto e assurto a principio inviolabile: al
subordinato sono espressamente richiesti obbligo di "obbedienza e fedeltà" ("il CHI"), tutti gli altri doveri
essendo corollari a questi (mansioni, carichi di lavoro, responsabilità: "il COSA"). Obbedisce il servitore al
padrone, il suddito al re, il cittadino all’autorità. In sostanza possiamo ragionevolmente generalizzare
quanto segue: tutti gli ambiti nei quali il perseguimento di un obiettivo (guerra/lucro/stabilità) prevale su
considerazioni di altra natura (etica, morale, cultura, individualità), l'obbedienza è elemento determinante
e come tale presente in ogni forma possibile di strategia. L'obbedienza è qualcosa di diverso rispetto alla
"sudditanza": l'essere sudditi porta con sé il concetto della remissività, dell'essere supini, rassegnati e
rinunciatari. L'obbedienza è altro, è un valore. L'etimo del termine "obbedienza" – in una delle possibili
interpretazioni – ce ne consegna l'autentico significato: "ob", particella che introduce il complemento di
causa, ed "eo", prima persona singolare del verbo "ire", coniugata al presente indicativo. Obbedire – in
definitiva – significa "andare a causa di", ovvero, estensivamente "impegnarsi al fine di". Il combattente
non sceglie, obbedisce. Obbedire a cosa? Obbedire a una norma, al codice tecnico, al codice etico: obbedire
alle istruzioni del Maestro? No, niente di tutto questo: il combattente non è un soldato, ma un Guerriero. E
allora di quale obbedienza stiamo parlando?
Il Combattente obbedisce al Combattimento.
C’è una messe di regolamenti da tenere in considerazione, un complesso di norme
comportamentali, igieniche e alimentari. C’è un codice tecnico ferreo dal quale è impossibile prescindere.
C’è una deontologia, una serie di obblighi fisiologici cui ispirare la condotta dell’allenamento,
dell’addestramento, della preparazione psicofisica all’incontro. C’è un essere umano da tenere in salute e in
corretto stato di forma, un individuo all’interno del quale devono circolare idee e immagini di sforzo,
sacrificio e vittoria, visioni di ciò che accadrà. Ma non è ancora sufficiente. Non è ancora questa “la norma”.
Quanto spesso ci accade di trovarci dinanzi a una situazione che prevede varie soluzioni? Quante volte
abbiamo pensato di possedere più opzioni? Quante volte abbiamo avuto la percezione di “dover decidere”?
Nel Combattimento non si decide nulla, nel Combattimento si obbedisce. Ogni singola fase della lotta
postula una ben precisa risposta. Ogni circostanza tecnico/tattica invoca una soluzione specifica, la più
efficace, la più congeniale, la migliore. “Ogni vuoto cerca il suo pieno”, ricorda un antico adagio
Thailandese, intendendo puntualizzare che ogni circostanza che si dovesse verificare durante un match
dev’essere affrontata applicando una soluzione che non c’è il tempo né il modo di “scegliere”. Il
combattente non decide, egli obbedisce. Chi “decide” – in verità – “cade” (decidere, latino: “de” + “cado” =
cadere; per estensione: cadere da una delle due parti, ovvero rimanere negli opposti), mentre il
combattente obbedisce, nel senso che muove i propri passi verso un obiettivo prestabilito che è quello
contingente di vincere lo scontro. Il combattente sceglie “ab initio”, direbbero i latini: egli sceglie la
disciplina e successivamente sceglie ancora di diventare un combattente, ma da quel momento in poi egli
non deciderà più nulla, egli dovrà “obbedire”. Nella teoria del combattimento, quanto più ci si allontana
dalla prospettiva della “decisione”, tanto più elevato sarà il grado di effettiva padronanza ed efficacia
durante il combattimento. Nelle fasi iniziali si ha la percezione di poter scegliere una tecnica, una soluzione
(primi dieci anni di pratica), ma successivamente si verificherà – celata ai nostri occhi, quasi inafferrabile
con le parole e con le immagini – una propensione a “lasciarsi guidare” dalle circostanze. È una fase
particolarmente delicata della pratica, perché lascia il praticante un po’ perplesso, confuso. Ebbene sta
accadendo: il combattimento sta occupando l’uomo, lo sta trasformando pian piano, con pazienza e
sapienza, senza che lui ne abbia consapevolezza. È una specie di battesimo: si trova ancora nella condizione
di vanità di “voler” decidere come impostare il combattimento, ma una logica istintiva inafferrabile tende a
prendere il sopravvento. E dopo tante prove, dopo l’esperienza matura di innumerevoli occasioni in cui il
combattimento avrà preso la piega giusta “malgrado” quella sensazione di impotenza, una nuova fase si
aprirà, autoritaria: giungerà una consapevolezza radicale dell’incapacità di scegliere, dell’efficacia assoluta
dell’obbedienza. “Fare ciò che è giusto fare”, laddove per “giusto” s’intende ciò che contemporaneamente
è più congruo da un punto di vista tecnico, tattico, del tempismo, dell’energia, della rabbia. Questo stato di
profonda consapevolezza – il Pragmatismo Marziale che questo volume intende rivelare – è prerogativa del
Combattente esperto, dell’atleta completo, di quell’individuo che conosce il limite della scelta personale (la
“decisione”) e sa affidarsi con umiltà al proprio Maestro: il Combattimento.
Ma per applicare efficacemente la scelta giusta al momento giusto, c’è una richiesta fondamentale
che dev’essere esaudita: il combattente deve proiettare sul campo l’azione “malgrado” i suggerimenti degli
altri suoi organismi di governo: il corpo (con tutte le sue esigenze fisiologiche e la sua limitata capacità di
sviluppare lavoro ed energia), l’emotività (che di frequente “frena” anziché “accelerare”), la paura (che
distrugge anche la più onorevole delle intenzioni), l’istinto (che generalmente ci tira fuori dai guai, ma che
altrettanto spesso dovrebbe essere imbrigliato come un cavallo), il giudizio (che troppo spesso è
“pregiudizio”). Il punto – in sostanza – è che il “corpo” non deve interferire: il corpo deve “obbedire”. È la
mente, il Generale, e il corpo la sua Armata: il Pragmatismo Marziale educa a questo tipo di rapporto di
forza e la sua efficacia dipende dall’effettiva relazione che intercorre tra mente e corpo. L’esercizio
dell’Autocontrollo è lo strumento, la supremazia della Psiche sul Soma è l’obiettivo, che a sua volta è
propedeutico all’obbedienza. Senza disciplina non v’è autocontrollo, senza quest’ultimo non c’è strategia
che tenga e la più consistente delle Armate può perdere una guerra, perché gli uomini non hanno saputo
applicare le istruzioni impartite dal suo Generale. Un Combattente puro è tutto questo: Generale e Armata.
È questo il segreto di una vittoria: sapere ciò che deve essere fatto e farlo, senza che nessun altro
interferisca nell’azione e influenzi il destino di quell’azione. Rabbia, fatica, stanchezza, vanità, paura,
presunzione di superiorità e soprattutto certezza del risultato dello scontro: nulla di tutto questo può
rientrare nell’equazione, a nessuna emozione dev’essere concesso diritto di espressione: è così che il
Combattente può obbedire a sé stesso. Nessun compromesso, nessuna pietà: chi governa un plotone deve
pensare al risultato finale, non a proteggere il singolo soldato. Così è possibile conseguire una vittoria
(nell’accezione più alta: la sopravvivenza) finanche sacrificando un soldato (riportando la frattura di un arto,
per esempio).
Ma prima ancora dell’adempimento, occorre conoscere l’istruzione e prima di questa il Generale
deve conoscere la situazione e inquadrarla in uno scenario chiaro e a lui comprensibile. Qualunque fase del
combattimento è collocabile all’interno di uno schema abbastanza semplice, ma altrettanto preciso, una
sorta di matrice logica che sintetizza la fenomenologia del combattimento tripartendola come di seguito: a)
routine – b) disturbo – c) emergenza. Tutte le situazioni potenzialmente verificabili all’interno di una lotta o
di un combattimento o di un match, sono riconducibili a una di queste fasi. Per amore di semplificazione i
teorici del combattimento hanno redatto schemi particolari che permettono di ricondurre alcuni parametri
tipici del combattimento a ciascuno di questi elementi, in un rapporto di corrispondenza “univoco” (nel
senso che l’elemento A è riconducibile al segmento X, ma non necessariamente avviene il contrario). Gli
elementi che concorrono a “spiegare” la permanenza in una delle tre fasi sono i seguenti: distanza tra i due
contendenti, intenzionalità dell’avversario, grado di estensione del corpo nello spazio, fotogramma dello
stato dello scontro (condizione di parità o di non-parità, a vantaggio di uno dei due), grado di espressione
delle energie (stato di forma), momento pregresso (cosa è appena accaduto), temperamento
dell’avversario, condizione dell’ambiente esterno, limitazioni derivanti dal regolamento (se ne esiste uno),
fattore-tempo (se è uno dei limiti inclusi nel regolamento), fattore spazio (idem), caratteristiche fisiche dei
due contendenti. Si tratta di elementi che – trasposti a livelli differenti – possono essere applicati in ambiti
diversi: strategia, guerra, marketing, relazioni interpersonali. Essenzialmente il teorema RDE (Routine-
Disturbo-Emergenza) basa la sua indiscussa fondatezza secondo cui “l’improvviso ha sempre bisogno di una
lunga preparazione” per verificarsi nella realtà. Non esistono “fatti improvvisi” – in sostanza, esistono
piuttosto “sintomi rivelatori di un attacco” che il combattente attento – o lo stratega o il capitano d’impresa
– è tenuto a “raccogliere” dallo scenario circostante, a interpretarli e a suggerire – immediata – la corretta
reazione. Con lo studio della realtà – propedeutico all’azione, ma contestuale a essa, quando l’esperienza lo
rende possibile, la prima percezione del Pragmatismo Marziale può dirsi completa. Conoscere, sapere, fare.
Il passo successivo è ancora più arduo: essere, sapere, fare, avere (dalle parole del maestro S.E. Naadd,
capo guerriero nord americano).